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Omicidio Lea Garofalo: uno degli assassini si suicida in carcere.



Rosario Curcio, uno dei killer di Lea Garofalo, si è suicidato nella sua cella nel carcere di Opera a Milano, dove stava scontando l’ergastolo.

Curcio, assieme a Carlo Cosco, era stato condannato per l’omicidio della testimone di giustizia avvenuto il 24 novembre 2009. Il corpo di Lea Garofalo era stato fatto a pezzi e bruciato per tre giorni in un capannone nel tentativo di cancellarne le tracce.

Testimone di giustizia sottoposta a protezione dal 2002, Lea Garofalo decise di testimoniare sulle faide interne tra la sua famiglia e quella del suo ex compagno Carlo Cosco. Dopo una complicata vicenda giudiziaria che la vede entrare ed uscire più volte dal programma di protezione, subisce un primo tentativo di sequestro nel 2009 (proprio mentre viveva a Campobasso insieme alla figlia) e pochi mesi dopo viene uccisa dopo essere stata attirata dall’ex compagno in un appartamento di Milano con la scusa di parlare del futuro della figlia.

Curcio, che aveva 46 anni, è stato soccorso mercoledì nella sua cella, dove si è impiccato utilizzando il sostegno di una struttura. Trasportato all’ospedale San Paolo in gravissime condizioni è stato dichiarato morto oggi. Durante la detenzione Curcio aveva iniziato a collaborare con il “Gruppo della trasgressione”, un gruppo di aiuto fondato 21 anni fa dallo psicologo Angelo Aparo.

La notizia è stata confermata dai vertici dell’amministrazione penitenziaria e ora sarà aperta un’inchiesta per chiarire l’esatta dinamica del suicidio.

Il suicidio nel carcere di Milano di Rosario Curcio riapre una ferita nella comunità di Campobasso e più in generale di quella molisana non ancora rimarginata nel ricordo di Lea Garofalo che da testimone di giustizia, trasferita a Campobasso con la figlia, ha pagato con la vita il suo alto comportamento di coraggio. Così Aldo Di Giacomo, segretario generale del S.PP. – Sindacato Polizia Penitenziaria che aggiunge: Garofalo è un simbolo per tante donne del Sud che per scelte sentimentali vivono con mariti e compagni appartenenti a clan e gruppi della criminalità organizzata senza condividerne la scelta, anzi costrette a subirla, spesso per il bene dei figli. La comunità di Campobasso continua ad interrogarsi cosa si sarebbe potuto fare e purtroppo non è stato fatto per tutelare la “donna coraggio” vittima del rapimento e poi di una morte atroce. Resta vivo l’esempio – continua Di Giacomo – della collaborazione con la giustizia e del contributo dato per stroncare traffici criminali rompendo, attraverso una decisione tutt’altro che semplice, il muro di omertà e connivenza. La protezione delle collaboratrici e dei collaboratori di giustizia – conclude – è sempre un tema attuale che richiede una guardia sempre alta. Per questa ragione, chiediamo ad esponenti della società civile, della cultura, della politica di avere la massima attenzione sui problemi della giustizia fuori e dentro il carcere.

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