Istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1993, ogni anno il 3 maggio si celebra la Giornata Mondiale della Libertà di Stampa.
Allo stesso modo ogni anno Reporter Senza Frontiere pubblica il rapporto sullo stato della libertà d’informazione nel mondo. In questo momento sono oltre 500 i giornalisti detenuti.
Mentre in Paesi vicini a noi chi pensa liberamente è considerato oppositore e viene arrestato, avvelenato o addirittura fatto sparire perché semplicemente mostra il proprio volto, i propri capelli, perché balla o canta, noi siamo fortunati a poter dire di vivere in uno Stato in cui l’articolo 21 – declamato da Roberto Benigni durante la prima serata del Festival di Sanremo 2023 come “il pilastro di tutte le libertà dell’uomo” – protegge il diritto fondamentale di manifestare liberamente il proprio pensiero.
Eppure, nell’indice mondiale della libertà di stampa stilato da RSF l’Italia occupa il 58esimo posto. Questo risultato è il riflesso della situazione in cui si trovano diversi giornalisti che indagano su mafia, corruzione e gruppi estremisti e per questo vengono minacciati, talvolta anche aggrediti, o costretti a vivere sotto scorta.
Scrittori e giornalisti hanno scelto di servirsi di un’unica arma: la parola. Sempre più spesso però il potere politico prova a cancellare il loro racconto della realtà, portandoli a processo. Si tratta di un fenomeno sempre più in crescita e di cui si è discusso anche in occasione del Festival del Giornalismo di Perugia.
Il tipo di azione legale intrapresa da personaggi pubblici di alto profilo è nota come SLAPP (Strategic lawsuit against public participation): si tratta di cause legali – in cui il potere tra le parti coinvolte è ovviamente sproporzionato – il cui scopo è quello di intimidire, scoraggiare e mettere a tacere le voci scomode.
Sono molti i giornalisti e gli editori che – a causa della SLAPP – scelgono di evitare di occuparsi di determinati argomenti per evitare conseguenze spiacevoli.
L’episodio che ha attirato l’attenzione mediatica sul tema si è verificato nel dicembre 2020, quando un noto scrittore, ospite di un talk show, di fronte all’immagine straziante di una madre disperata che stringe a sé suo figlio di appena sei mesi morto per annegamento in uno dei numerosi sbarchi, lo scrittore aveva dato dei “bastardi” a due dei leader del Centrodestra per il modo in cui era stata gestita l’emergenza in mare.
Un commento morale, il suo, non politico.
La leader di Fratelli d’Italia ha considerato l’offesa subita ma non l’emotività del momento e ha presentato una querela nei suoi confronti.
In ogni caso a rimetterci è la qualità stessa del lavoro giornalistico e la libertà decisionale del singolo individuo.
Tutto questo accade perché ad oggi non si riconosce al giornalista la legittimità di avere – e di esprimere – un pensiero critico senza essere necessariamente identificato come appartenente alla fazione politica opposta.
Oggi più che mai, è necessario che le pene detentive nei confronti degli operatori dei media (peraltro dichiarate incostituzionali) vengano eliminate e che venga adottata una legislazione anti-SLAPP che permetta ai giornalisti di lavorare liberamente e di evitare che simili episodi di censura preventiva si ripetano.
Per di più – come sottolineato dal segretario generale della Fnsi, Raffaele Lorusso – le proposte di legge di tutela del diritto di cronaca e della professione sono in stallo da anni, per non parlare della totale assenza di politiche di sostegno al lavoro regolare e di contrasto al precariato.
Ecco perché – come fecero per noi i padri costituenti quarantacinque anni fa quando ci hanno liberato dall’obbligo di avere paura – dobbiamo continuare a lottare per proteggere la libertà d’espressione e l’indipendenza della stampa.
Lo dobbiamo ad Ilaria Alpi, assassinata in Mogadiscio mentre indagava sul traffico illegale di armi e di rifiuti tossici.
Lo dobbiamo a Maria Grazia Cutuli che ha perso la vita in un attentato in Afghanistan mentre svolgeva il proprio lavoro, spinta dal dovere di informare.
Lo dobbiamo a Giancarlo Siani, ucciso brutalmente dalla camorra a soli ventisei anni.
Lo dobbiamo a Mino Pecorelli, a Walter Tobagi, a Peppino Impastato, a tutti i giornalisti uccisi mentre esercitavano la loro professione e a tutti coloro che ogni giorno rischiano la propria vita in nome della verità.