Era la sera del 20 Marzo 1979, quarantaquattro anni fa, quando nelle vicinanze della redazione del periodico “OP” veniva brutalmente assassinato il giornalista molisano Mino Pecorelli. Ad oggi, quasi mezzo secolo dopo, i responsabili come i mandanti e le reali motivazioni che hanno portato all’assassinio di Pecorelli restano un fitto mistero, nonostante i numerosi Processi celebrati negli anni per cercare di ricostruire l’esatta dinamica dei fatti. L’unica certezza a riguardo è che Pecorelli fosse uno dei principali giornalisti d’inchiesta del panorama italiano dell’epoca. Un professionista dedito alla ricerca della verità e sugli intrecci di influenze e soldi, riguardanti i più importanti avvenimenti italiani del tempo e sul coinvolgimento in essi delle più potenti personalità italiane dell’epoca (politici, imprenditori, boss criminali). La rivista da lui fondata e diretta “OP” nell’Italia del finire anni ’60 e per tutta quella degli anni ’70, era diventata il mezzo tramite il quale Pecorelli ha divulgato le proprie inchieste giornalistiche, senza alcun timore ed alcuna riverenza nei confronti di alcuno. Non c’è da meravigliarsi se fosse considerato un giornalista estremamente “scomodo” data la sua propensione a pubblicare qualsiasi tipo di notizia a prescindere da chi o cosa ne fosse coinvolto e le ripercussioni che avrebbero causato, sopratutto per la sua persona.
Pecorelli è sempre andato avanti come un treno ed a testa alta nel condurre il proprio lavoro, forte di una rete di fonti ed informatori addentrate ad alti livelli nel mondo politico, nella massoneria, nei Servizi Segreti ed anche nelle Forze dell’Ordine, cosa nota a molti e che rendevano le rivelazioni e gli scoop di OP assolutamente attendibili e veritieri, e proprio per questo pericolosamente scomodi, così come era diventata la figura dello stesso giornalista. A dimostrazione di quanto detto sopra, si ricordano particolarmente le numerosissime inchieste condotte sui reati di abuso edilizio; frode fiscale, i comportamenti pubblici e privati dei politici, compresi quelli della famiglia di Giovanni Leone (Presidente della Repubblica dal 1971 al 1978) e di sua moglie, Vittoria Michitto. Altri scandali degni di nota regolarmente pubblicati su OP furono quello dell’Italpetroli, il Lockheed, il caso Sindona, il dossier “Mi.Fo.Biali” (che coinvolgeva l’ex direttore del SISDE Vito Miceli, Mario Foligni del Nuovo partito popolare e la Libia), oltre allo scoop riguardante la presenza di una loggia massonica in Vaticano. Insomma l’opera giornalistica di Mino Pecorelli non risparmiò davvero nessuno, soprattutto sulla vicenda del Rapimento Moro arrivando a fare rivelazioni come ad esempio sulla falsità del Comunicato n. 7 delle Brigate Rosse, redatto da Antonio Chichiarelli, sull’inizio delle trattative da parte del Vaticano, e sulla lettera di Moro alla moglie riguardo all’impegno di Cossiga e Zaccagnini, nonché sul fatto che Cossiga avesse saputo da Carlo Alberto Dalla Chiesa dov’era tenuto il politico e che lo si volesse morto. Pecorelli si occupò di Moro fin dalle prime minacce americane per la sua politica di apertura verso il Partito Comunista, al tempo in cui era Ministro degli Esteri. Il 1º ottobre 1978, a quasi cinque mesi dall’uccisione dello statista, i reparti speciali dell’antiterrorismo guidati dal generale Dalla Chiesa effettuarono un’irruzione nella base brigatista di via Montenevoso a Milano e il materiale trovato venne subito pubblicato dai giornali. OP alluse però alla falsità del memoriale, documento censurato preventivamente con riferimenti al premier Giulio Andreotti che sarebbero stati occultati. Dodici anni più tardi nella stessa base verrà trovata una seconda copia del memoriale di Moro con riferimenti inediti a finanziamenti della CIA alla DC, alla struttura paramilitare Gladio e appunto ad Andreotti, con l’attacco che Moro gli rivolse per il suo ruolo nella vicenda Arcaini-Caltagirone-Italcasse.
Sopratutto Giulio Andreotti in quel periodo fu un bersaglio privilegiato di Pecorelli ed in particolare l’ambiente (fatto di politici, industriali e faccendieri) che alimentava la sua corrente: esemplare l’episodio di una cena in cui il braccio destro di Andreotti, Franco Evangelisti, cercò di convincere Pecorelli, con un assegno di 30 milioni di lire, prestati da Caltagirone, a non pubblicare un reportage sugli assegni milionari che Andreotti avrebbe girato all’imprenditore Nino Rovelli o a Guido Giannettini del SID.[8]
Pecorelli continuerà ad occuparsi delle malefatte di Andreotti, tanto che la sera in cui venne ucciso aveva già pronto un numero di OP con in copertina la sua foto con il titolo “Tutti gli assegni del presidente” ma dell’articolo non sono mai stati rinvenuti né il dattiloscritto né la bozza di stampa.
Come detto successivamente all’omicidio del giornalista scomodo, numerosi furono i processi e le indagini condotte per cercare di portare alla luce la verità. Furono battute le più disparate piste investigative, portando alla sbarra boss, membri della Banda della Magliana ed addirittura lo stesso Andreotti. Purtroppo ogni tentativo fatto in questi 44 anni si è concluso con un nulla di fatto e la verità è ancora molto lontana dal venire fuori.
Chiudiamo questo articolo in memoria del giornalista molisano Mino Pecorelli, affermando con convinzione che la sua storia ed il suo modo inflessibile di portare avanti l’attività giornalistica, è stata la fonte di ispirazione che ci ha mosso a fondare questa testata che proprio in onore ed in ricordo dell’illustre Pecorelli abbiamo deciso di chiamare OP Molise, con la speranza e la forte volontà di proseguire, nel nostro piccolo, quanto di grande Mino Pecorelli ha fatto pagando con la sua stessa vita il prezzo dell’indipendenza e della divulgazione della verità.
Simone Rocco